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Corte di Cassazione sezione lavoro, ordinanza 10870 del 23/04/2021 - Nel rapporto di lavoro a termine per la proroga del contratto non è necessaria la forma scritta ad substantiam.

L’art 4 del d.lgs. n. 368\01 non prevede, che la proroga del contratto a tempo determinato debba avvenire per iscritto. Neppure nell'impianto di cui alla L. n. 230\62 era previsto che la pattuizione di una proroga dovesse avvenire con atto scritto, anche se in quel caso la mancata prescrizione di forma era superflua, posto che la prosecuzione del contratto oltre la durata iniziale comportava la trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato (art. 2 L. - n. 230\62), salva la prova di una proroga concordata. In tale contesto, come rimarcato in più occasioni dalla Suprema Corte, deve ritenersi che la mancata previsione della forma scritta per la proroga sia, oggi, bilanciata dai nuovi e più flessibili meccanismi sanzionatori, comportanti maggiorazioni retributive per la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza iniziale, oltre alla trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeterminato qualora tale prosecuzione superi i detti limiti di venti o trenta giorni (a seconda che la durata iniziale del contratto sia inferiore o superiore a sei mesi), lasciando intatto l'onere in capo al datore di lavoro di provare l'esistenza delle ragioni obiettive che giustificano la proroga. Il legislatore, con il d.lgs. n. 368\2001, non solo ha previsto obiettive ragioni per l'assunzione a termine (art. 1) e per la sua proroga, addossando sul datore di lavoro la prova della loro sussistenza (art. 4), ma ha previsto altresì una durata massima del rapporto di lavoro in caso, di proroga, oltre a meccanismi sanzionatori per l'ipotesi di successione di contratti (art.5).

Corte di Cassazione sezione lavoro, sentenza n° 9305 del 07/04/2021 - Nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, la "insussistenza del fatto" si configura, quando possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva.

Nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la "insussistenza del fatto" si configura, qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l'ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare in ogni caso una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati; con la conseguenza, nell'ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, dell'applicazione della tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedano una sanzione conservativa. Sotto altro profilo, l'art. 18 I. 300/1970 nel testo novellato riconosce al quarto comma la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel suddetto quarto comma quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che stabiliscano per esso una sanzione conservativa.

Corte di Cassazione sezione lavoro, sentenza 26160 del 17/11/2020 - Costituisce base contributiva imponibile l'importo corrispondente alla indennità per ferie non godute qualora sia decorso il termine previsto dall'art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003, a prescindere dalla cessazione del rapporto di lavoro.

La questione di cui si discute concerne l’assoggettabilità a contribuzione previdenziale dell' importo corrispondente alla indennità per ferie non godute dal lavoratore, anche se non corrisposta, qualora siano decorsi i diciotto mesi successivi al momento di maturazione delle dette ferie ed il rapporto di lavoro non sia cessato. La giurisprudenza di legittimità, in fattispecie in cui il rapporto di lavoro era cessato, ha consolidato il principio secondo il quale l'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell'art. 12 della I. n. 153 del 1969, sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall'art. 2126 c.c. a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore.sia perché un eventuale suo concorrente profilo risarcitorio non escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal citato art. 12, costituendo essa comunque un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione. L'art.12 della legge n. 153 del 1969, regola il sistema di finanziamento previdenziale secondo il principio per il quale, alla base del calcolo dei contributi previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, pertanto, ne discende che laddove il lavoratore non abbia fruito delle ferie maturate entro il termine indicato dall'art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003 e quindi stato impiegato anche mentre avrebbe dovuto riposare, è certamente integrato il presupposto dell'obbligo contributivo richiesto dall'art. 121. n. 153 del 1969, poichè la prestazione è stata resa in un periodo in cui la stessa non avrebbe dovuto essere resa, generandosi una maggiore capacità contributiva, quantificabile in termini economici quale indennità per le ferie non godute, che non può non incidere sugli oneri di finanziamento del sistema previdenziale posti a carico dell'impresa che di tale maggior produzione si è avvantaggiata.È irrilevante- ai fini previdenziali- che l'indennità possa essere monetizzata tra le parti del rapporto di lavoro solo alla sua conclusione. L'obbligazione contributiva, infatti, è inderogabile e l'inderogabilità trae origine dal fatto che essa nasce direttamente dalla legge ed è integralmente sottratta all'autonomia privata. L'inderogabilità esprime l'indisponibilità dei soggetti coinvolti nel rapporto previdenziale rispetto alla fattispecie legale, così che gli stessi non possono sottrarsi, nemmeno in via convenzionale.

Corte di Cassazione sezione lavoro, ordinanza 19062 del 14/09/2020 - Il lavoratore, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute.

Secondo il più recente indirizzo di legittimità, che valorizza i canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, deve ritenersi prevalente l'interesse del dipendente alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Il lavoratore, pertanto, ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, gravando sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare la possibile perdita del posto di lavoro, per scadenza dei periodo di comporto. Il lavoratore, assente per malattia, ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie. A tale facoltà non corrisponde tuttavia un obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa, e ciò in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive e non motivate con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative.

Corte di Cassazione sezione lavoro, ordinanza n° 18245/2020 - Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, giustificando il recesso del datore di lavoro.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia giustificaquindi il recesso del datore di lavoro, per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Corte di Cassazione sezione 6 civile, ordinanza n° 16107/2020 - In caso di riforma della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro non può pretendere la restituzione degli importi al lordo delle ritenute fiscali.

Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, sezione 6 civile, con l’ordinanza n° 16107/2020, secondo cui, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali, mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto "ex tunc” dell'obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto, ricade nel raggio di applicazione dell'art. 38, comma 1, del D.P.R, n. 602 del 1973, secondo cui, il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell'amministrazione finanziaria spetta, in via principale, a colui che ha eseguito il versamento, non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell'obbligo.

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n° 12374 del 23/06/2020 - Nel pubblico impiego contrattualizzato non è possibile convertire i contratti a termine in rapporti a tempo indeterminato.

Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n° 12374 del 23/06/2020, secondo cui nel pubblico impiego contrattualizzato, la conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato è vietata, senza eccezione alcuna, dall'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 che, in tutte le versioni succedutesi nel tempo, ha sempre previsto «in ogni caso la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione». Il principio è stato affermato anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 5072 del 2016, ed ha trovato ulteriore avallo nella più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 248/2018) e della Corte del Lussemburgo (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C-494/16, Santoro), che, da un lato, ha ribadito l'impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato; dall'altro, ha riaffermato che la clausola 5 dell'Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE non osta ad una normativa nazionale che vieta la trasformazione del rapporto, purché sia prevista altra misura adeguata ed effettiva, finalizzata ad evitare e se del caso a sanzionare il ricorso abusivo alla reiterazione del contratto a termine. La regola dettata dal legislatore ordinario non ammette eccezioni e trova applicazione sia nell'ipotesi in cui per l'assunzione a tempo indeterminato non sia richiesto il concorso pubblico, sia qualora il contratto a termine sia stato stipulato con soggetto selezionato all'esito di procedura concorsuale.

Cassazione civile sezione lavoro ordinanza n° 9095/2020 del 18/05/2020 – La sospensione del dipendente pubblico sottoposto a procedimento penale, diviene priva di titolo, qualora all'esito del procedimento penale non venga attivato quello disciplinare.

Nell'impiego pubblico contrattualizzato, la sospensione facoltativa del dipendente sottoposto a procedimento penale, in quanto misura cautelare, diviene priva di titolo qualora, all'esito del procedimento penale, non venga attivatoquello disciplinare. L'onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava sull'amministrazione e non sul dipendente pubblico. Il legislatore, prima, e le parti collettive poi, hanno posto un preciso onere a carico delle amministrazioni, che, una volta fatto ricorso alla misura cautelare, non possono rimanere inerti e devono sollecitamente adottare tutte le iniziative necessarie a consentire una tempestiva ripresa del procedimento. A tal fine il legislatore, per consentire alle Pubbliche Amministrazioni di avere tempestiva notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del loro esito, ha imposto precisi oneri di comunicazione a carico del Pubblico Ministero e della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento. Mai è stato previsto, a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio, un obbligo di collaborazione e un dovere di comunicazione delle sentenze penali, a prescindere dalla natura e dal contenuto di dette decisioni.


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